Il mercato di Chandi Road ha lo stesso caos, gli stessi odori, lo stesso andirivieni di folla e di merci dei quartieri del commercio di tutto l’Oriente. Per girarlo, la nostra guida, Anil, letteralmente vento, ha pensato che fosse meglio un mezzo su ruote. Il risciò. Scesi dal pulmino siamo stati accerchiati da una banda di pedalatori in cerca di passeggeri. Contrattato il prezzo (200 rupie a testa), siamo saliti sul carrozzino a pedali e siamo partiti. Se mi sentivo in colpa perché una persona faticava tanto per trasportarmi? Per nulla. Mi sentivo tranquillissima, come lo erano le donne in sari, i signori ben più robusti di me e gli altri clienti abituali del risciò. Il problema non è morale, è più…sensoriale. Ti si frange tutto addosso. Gli odori suadenti e quelli molesti, i carri carichi di sacchi destinati ai negozi (più che negozi sono loculi, ma hanno un indirizzo), i fili elettrici che piovono dal cielo come liane e ti chiedi quale mano divina tenga “in sicurezza”, il fracasso del traffico (il costume è piazzare una mano sul clacson e lasciarcela…), la vista di un pulman a mezzo centimetro dal tuo gomito, e altre amenities che fanno parte del pacchetto “bello il giro in risciò, ma il prossimo lo faccio nel 2050” (ps il primo lo dovete fare, è una gioia del cuore, se resiste, il cuore). Siamo scesi solo per far incetta di spezie (io mi sono astenuta, ma le colleghe abili ai fornelli hanno svaligiato il negozio), visitare il vicolo del peperoncino (e sternutire per i successivi 20 minuti) e per far foto…venute tutte male per sopraggiungere incessante di altri risciò, persone, sacchi, cartoni, mezzi e turbanti. Ma Anil-vento aveva per noi in serbo altre sorprese. Il tempio Sikh Bagla Saheb, vicino alla piazza
Si entra tutti a capo coperto, con veli o fazzolettini, e piedi nudi. No, non calzettoni, nudi nudi. IL marmo è fresco e lindo. E il rispetto per il luogo annulla ogni riserva. Ricordo i turbanti dei celebranti che salmodiavano seduti sui tappeti in microfoni hi-tech, le donne assorte di fronte alla stanza col letto dove il libro sacro viene riposto la notte, le file – all’ingresso – per la distribuzione in sacchettini di plastica trasparente di acqua benedetta, l’enorme vasca di marmo a cielo aperto, e la visita alle cucina. Nel tempio, infatti, vengono serviti dei pasti. A migliaia, e chissà quante decine di migliaia, di persone, che si succedono a ondate, dal corridoio esterno fino a una larga sala antistante la cucina, in cui sottile guide beige disegnano a terra strisce di posti a sedere di fronte ai quali si appoggeranno i vassoi col pasto.
Le cucine sono il vero spettacolo. Volontari o impiegati del posto, scalzi e silenziosi, accoccolati a terra, impastano su enormi lastre di marmo le focaccine di pane che si cuociono sulla vicina piastra, mentre su enormi pentoloni sul fuoco, ribollono curry di verdure fumanti, poi travasate in secchi e servite ai fedeli ma anche a tutti gli affamati che passano dal tempio per mangiare.
Ricordo il silenzio, la penombra, una bambina di 5 anni che impastava accanto alla mamma una pallina di pasta con mani piccole e goffe, l’odore di spezie e le focaccine tolte dalla piastra e “saltate” in grandi ceste di plastica per la distribuzione. Ho assaggiato il pane, un pezzo così piccolo che assomigliava più a una briciola che a un morso. Non so se per paura del cibo o per il sentimento di non essere degna. Andateci è bello, è toccante, è capace di zittire anche il mio cinismo più nascosto.
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